In questi giorni di isolamento forzato, la maggior parte di noi sta apprezzando, come mai aveva potuto fare prima, il valore della socialità e dello stare insieme. Persino noi genovesi, gente solitaria e diffidente, ci troviamo a rimpiangere il valore aggregativo dello spazio pubblico, ora che quest’ultimo è diventato un semplice sfondo da osservare dalle finestre delle nostre abitazioni.
Per uno sfortunato gioco della sorte, il nuovo virus che ci ha costretti a questa quarantena ci ha anche privato di Vittorio Gregotti, un maestro dell’architettura contemporanea, un intellettuale che ha servito l’architettura per una vita intera, ponendo sempre al centro della sua attività i valori della comunità e del vivere sociale.
Non mi è mai capitato di incontrarlo di persona e sicuramente non sono la persona più adatta a restituirne un ricordo ma posso dire, come tanti genovesi della mia generazione, di essere cresciuto frequentando uno dei suoi progetti più importanti, realizzato proprio nella nostra città: lo stadio Luigi Ferraris. Da tifoso di calcio, ho amato quest’architettura, che è stata compagna di molte domeniche per diversi anni.
Il rituale di famiglia era sempre il medesimo: parcheggio dell’auto nei pressi del casello autostradale e lunga passeggiata per andare verso lo stadio; avvicinandosi le quattro torri angolari sono sempre state un riferimento visivo in questo punto della città, un landmark che perfino per un bambino di dieci anni che si reca per la prima volta in quel luogo ha costituito un punto di riferimento certo nel panorama di Marassi.
Ogni volta avevo un’impressione sempre diversa di questo strano edificio; un massiccio monolite dal lato del carcere, lo sfondo rosso di villa Piantelli da corso de Stefanis, un edificio monumentale da via Canevari; sempre diverso e mai inopportuno. Percorrendo le lunghe rampe di accesso agli spalti la visuale sulla città si trasformava continuamente, mostrando scorci della val Bisagno inediti per un semplice passante.
Ma la sorpresa più grande era entrare nell’arena, immaginata come una piazza, una grande corte verde all’interno del denso tessuto cittadino; un luogo di grande socialità dove la gente si poteva incontrare e socializzare.
Nel corso degli anni ho osservato questo edificio con un occhio differente, ma sempre apprezzandone il rigore con cui era stato disegnato; era evidente che chi aveva immaginato questo spazio avesse una forte attenzione per il senso civico, per l’identità sociale e che non fosse alla ricerca di una semplice immagine accattivante, di un’iconica espressione di un ego personale. È un luogo immaginato per il cittadino, un luogo socialmente utile.
Ogni genovese che ha potuto vivere quello spazio oggi riconosce il “Luigi Ferraris” al pari di altri grandi monumenti cittadini e non come un semplice luogo di spettacolo; il tifoso vive quel luogo con un senso di appartenenza non comune per uno stadio di calcio.
È chiaro che questo è solo un piccolo ricordo personale, un frammento di una carriera di un’intellettuale che ha dato molto al dibattito architettonico, sia come progettista che come teorico.
Da architetto appassionato, la sua Casabella (diretta dall’82 al 96) è stata senz’altro un punto di riferimento negli anni di formazione di generazioni intere di architetti italiani che, grazie a lui, hanno scoperto il lavoro di Tadao Ando, Hans Kolhoff, Alvaro Siza, James Stirling, Oswald Mathias Ungers. È stato autore di vari testi tra cui “Le scarpe di Van Gogh” e il “Territorio dell’architettura”, opera imprescindibile sul tema del rapporto tra geografia e segno.
Direttore della rassegna di arti visive all’interno della Biennale di Venezia, precursore di quella che oggi è la Biennale di Architettura. Progettista di centinaia di opere come il Centro culturale di Belém a Lisbona (foto a destra), del quartiere Zen di Palermo, del teatro degli Arcimboldi e del quartiere Bicocca di Milano, del Campus dell’Università della Calabria ad Arcavacata di Rende, dello stadio olimpico Montjuic a Barcellona. In Liguria è stato anche autore della centrale di teleriscaldamento dell’Ansaldo di Genova mentre, a La Spezia, ha firmato la riqualificazione urbana del Centro Kennedy.
La Fondazione dell’Ordine degli Architetti PPC di Genova si unisce al dolore dei familiari dell’architetto Vittorio Gregotti, venuto mancare in questi giorni per complicazioni legate al COVID-19.
Lorenzo Trompetto
Fondazione dell’Ordine degli Architetti PPC Genova